L’Italia fra i tre grandi dell’Ue

Giorgia Meloni e Olaf Scholz

Direte che cerco il pelo nell’uovo. Ma appare certo che nelle ore che hanno visto chiudersi il 2022 ed entrare il 2023 -ore drammatiche per la morte di Papa Ratzinger (Piergiorgio Odifreddi il matematico, il logico, il filosofo, colui che scrisse Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) ha detto di lui Colto, gentile e incompreso. E anche Alberto Meloni, il noto storico delle religioni, che in vita l’aveva avversato, parlandone dopo, ne ha riconosciuto le spiccate qualità), hanno visto Giorgia Meloni ergersi a protagonista della scena civile e politica. Soprattutto nella fluviale conferenza stampa, nella quale, marcando le differenze di stile rispetto al suo predecessore, ha toccato tutti i punti posti dai rappresentanti della stampa, senza evitarne le scabrezze e senza rifugiarsi in giri di parole che nascondono imbarazzo.

Non intendo ripercorrere l’evento, anche perché le parole di queste occasioni, comprese quelle pronunciate da Sergio Mattarella di cui ho rinunciato (per stanchezza indotta dall’averle ascoltate tante volte senza mai riuscire a cogliere una fiammella di civile passione) alla diretta rifugiandomi sul testo pubblicato sul sito del Quirinale durano l’espace d’un matin e vengono rapidamente dimenticate. Alcune parole di Meloni, però, non possono essere dimenticate e pongono domande che mano a mano che passa il tempo e il governo si consolida (o dovrebbe consolidarsi) evidenziano ragionamenti e posizioni divisive, sulle quale, lei per prima dovrebbe compiere una riflessione.

Parliamo avanti tutto della natura del Movimento sociale. La premier ne ha ribadito la natura democratica compiendo un falso storico. A parte gli iniziali anni ruggenti, quelli delle leadership di De Marsanich e di Romualdi, anche con Almirante il partito fu ontologicamente un partito neofascista, un partito di nostalgici che ripeterono i riti del regime, ponendosi come alternativa di sistema rispetto allo schieramento dei partiti democratici. E poiché la storia cammina, come camminano e vanno avanti o indietro gli uomini, negli anni ’80 il Paese (o, se volete, la Nazione) poté verificare come i decenni di regime democratico avessero introdotto nel Msi (e nel Pci) il germe buono dell’accettazione del sistema. Una democratizzazione tardiva e comunque ben accetta.

Ricordo en passant che fu proprio Bettino Craxi a sdoganare il Msi e non per carenza di antifascismo, ma per realismo democratico. Del resto (l’abbiamo ricordato giorni fa su queste colonne) Giorgio Almirante si recò a rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure, dove fu accolto come un gradito visitatore che onorava un avversario e che compiva un gesto liberatorio e rinnovatore. Naturalmente, il dopo è il proseguimento della strada imboccata allora e lo è anche il partito Fratelli d’Italia che, allo stato, non è un partito neofascista e nemmeno un partito postfascista, ma un partito della destra italiana, che non mette in dubbio i principi dello stato democratico. E il richiamare l’antifascismo operato da molti nel corso del congresso in corso del Pd è solo un modo facile per eludere i problemi esistenziali di quel partito e del Paese, questioni sulle quali la riflessione e il dibattito sarebbero doverosi. Ma sono evitati per la gravità delle conseguenze che riflessione e dibattito potrebbero avere sulla medesima esistenza di questa sinistra, una cui parte è dentro dalla testa ai piedi nel disgraziatissimo scandalo politico del Parlamento europeo.

La seconda questione è la posizione europea dell’Italia. Nei giorni scorsi è emersa senza discussioni l’amicizia di Meloni nei confronti di Mateusz Morawiecki e di Viktor Orbán, rispettivamente primo ministro della Polonia e presidente dell’Ungheria. Nazioni alle quali l’Italia è sempre stata vicina, sia ai tempi di Lech Walesa, il sindacalista polacco promotore degli scioperi di Danzica contro il regime comunista e della fine del comunismo insieme a Karol Józef Wojtya, Papa Giovanni Paolo II, sia ai tempi di Gyula Horn, primo ministro ungherese del post-comunismo e dello stesso Orbán, il cui primo viaggio in Italia, come capo dei Giovani liberali, fu coronato dal successo e dal sostegno di tanti. Ora nessuno vieta alla Meloni una posizione particolarmente amichevole nei confronti di Polonia e Ungheria. Stati questi già oggetto di specifiche premure da parte di Gianni De Michelis, ministro degli esteri alla fine del comunismo.

Ma Meloni non può abdicare al posto che di diritto le spetta nella troika di governo dell’Unione europea. Una troika composta da (ordine alfabetico) Francia, Germania, Italia. Non può e non deve vista l’intensità degli interessi economici che ci accomunano, l’evoluzione degli stessi (ricordo il sostanziale ridimensionamento della Borsa di Milano), e la necessità di compensare le sviste, le leggerezze e gli errori che stanno caratterizzando il cancellierato di Olaf Scholz. Il contenzioso sollevato anche ai tempi in cui era soltanto la segretaria di Fratelli d’Italia non è sostanziale e la sua coltivazione può solo danneggiarci, visto che la manifattura italiana è dilagata in Francia ed è nostro vitale interesse che continui a dilagare.

La terza questione è una non-questione: la repubblica presidenziale. Azzariti, presidente emerito della Corte costituzionale, teme una deriva autoritaria … ma la deriva autoritaria non può discendere dal sistema istituzionale, soprattutto se esso sarà figlio di un lavoro comune dei due rami del Parlamento. E se i pdini sceglieranno l’Aventino, saranno loro i primi colpevoli di quanto di sgradito sarà definito nella prossima Bicamerale (le Bicamerali non portano fortuna, ma … è sempre possibile la prova contraria). La questione di fondo dell’Italia rimane la governabilità che si compone di due fattori: maggioranze definite secondo il voto; durata dei governi. Il resto verrà strada facendo.

Nel bene e nel male va ricordato un aforisma di Mao Tse Tung: «La Lunga marcia cominciò con un passo». Senza prefigurare, anzi rifiutando l’evoluzione del regime maoista, la nuova realtà politica italiana è un passo, il primo, sulla via della liberazione del Paese dall’obbligo delle maggioranze di unità nazionale, nelle quali governava chi non era stato scelto, come governante, dagli elettori.

La libertà può far paura, ma può far bene, tanto bene. Dunque, scarpe rotte eppur bisogna andar.

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